Qualche giorno fa è stata diffusa la notizia riguardante
la condanna di risarcimento danni per mancata soddisfazione
sessuale nel contesto del matrimonio. Ad agire
processualmente era stata una donna, la quale,
evidentemente, riteneva di poter quantificare e monetizzare
uno degli aspetti fondamentali della vita di coppia.
Presupposta la fredda brutalità di tale assunto, occorre
considerare che nel caso in questione il marito non aveva
"scioperato" di sua volontà, ma era di fatto
impossibilitato a soddisfare le pulsioni carnali della
donna, in quanto, a seguito di una operazione, era rimasto
impotente. Tenendo comunque bene in mente il carattere
puramente materialista della società che avvolge le nostre
esistenze, non si riesce proprio a comprendere su quale base
giuridica e fattuale il giudice abbia potuto addebitare un
simile risarcimento. E' come se l'evoluzione (si fa per
dire) sociale e giuridica del matrimonio abbia consacrato
questo istituto quale vero e proprio contratto a prestazioni
corrispettive, inadempiute le quali si pagano i danni. Non
solo. Tralasciando l'autocommiserazione relativa allo
sfacelo morale in cui siamo condannati a vivere, ciò che
risulta semplicemente ingiusto è che al povero marito non
sia stata riconosciuta neppure la forza maggiore. Il
principio che si è intesso stabilire, insomma, ascrive ai
coniugi il dovere inderogabile (per nessun motivo !) della
pratica sessuale, con la definizione altresì della
quantificazione economica dell'eventuale danno. Sulla
moglie, invece, ogni commento è superfluo. Dove andremo a
finire ?
sabato 29 novembre 2008
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