di Umberto Franzese
Ancora nel 1864 soltanto il 2,5 per cento della popolazione
parlava italiano, e nelle scuole, gli insegnanti, per farsi
capire dagli scolari, si esprimevano nelle lingue locali.
Un dibattito a più voci si è aperto sui quotidiani
nazionali per denunciare la perdita di vivacità e di
efficacia dell'italiano. La nostra lingua è messa in
forse dagli anglismi, dall'inglese "italianato",
dall'italiano "angliato". Esempi che incalzano:
shopping in luogo di comprare, fare acquisti; question-time
invece di interrogazione parlamentare; low-cost per
sottocosto; day-hospital per ricovero ospedaliero; fiction
per sceneggiato; live per diretta, dal vivo; shock per
collasso; premier per primo ministro; location per posto,
collocazione; ticket per cartellino, scontrino; stage per
tirocinio, corso di aggiornamento. Essere sexy; preso al
discount; news, notiziario, testata; vi trasmettiamo le
news; vaffanday; bypassare; under ventuno; over sessanta;
weekend, fine settimana. E' una resa incondizionata
all'anglo-egemonia. Il tutto deriva, è
incontrovertibile, dal fatto che una lingua viene più o
meno assimilata da un popolo conquistato, occupato. Il
vincitore, il conquistatore determina, impone così le
proprie regole, le proprie formule, le proprie idee,
i concetti, le teorie, le mode, le tendenze.
Trattasi, sotto innumerevoli aspetti, di una vera e propria
colonizzazione culturale alla quale i popoli europei non
hanno opposto alcuna resistenza. Gli Italiani men che mai,
privi di un forte orgoglio nazionale. L'Italia,
nell'ultimo conflitto, fu USAta.
"Noi diventammo a vicenda ora francesi or tedeschi, ora
inglesi, noi non eravamo più nulla. Dall'imitazione
delle vesti si passò a quella del costume e delle maniere,
indi all'imitazione della lingua: si apprendeva il
francese e l'inglese, mentre era più vergognoso il non
sapere l'italiano.
L'imitazione delle lingue porta seco finalmente quella
delle opinioni. La mania per le nazioni estere prima
avvilisce, indi immiserisce, finalmente ruina una nazione,
spegnendo in lei ogni amore per le cose sue. E' quanto
lamentava Vincenzo Cuoco nel suo "Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli".
Ma la lingua italiana, oltre a retrocedere, a regredire,
mostra i segni di sciatteria, di impurità, di
trivialità, di grossolanità. Il linguaggio comune, un
tempo articolato, ricco, duttile, concettoso, è così
diventato vuoto, tortuoso, farraginoso. Una recente indagine
dell'Accademia della Crusca ha evidenziato la pessima
padronanza della lingua e delle capacità espressive dei
maturandi al termine dell'intero ciclo di istruzione
elementare-media-superiore.
Nel linguaggio, nelle parole, s'innerva la nostra
identità, e cos'è l'identità se non la nostra
memoria, il nostro passato? Noi maturiamo attraverso
l'esercizio della memoria nel linguaggio. Più ricco è
il nostro passato, più ricco è il nostro linguaggio.
C'è chi ci sollecita a cercare Dio nella grammatica. E
chi va in cerca di Dio, va in cerca del bello. Il bello lo
spinge verso un linguaggio più raffinato, elegante,
brillante.
Laddove la lingua s'involgarisce maggiormente, perde di
potenza creativa, è nella pubblicità e in televisione
dove tutto si riduce a rissa, a giochi verbali. In TV
l'eloquio è sempre più povero, sfuggente, privo di
smalto. Prevale il motteggio, il dileggio, la frecciatina.
Abbondano i superlativi: a tra pochissimo, grandissimo,
assolutamente sì, assolutamente no, tantissimo-a-i-e su
tutti. Imperversano gli artifici lessicali, le storpiature
nella pronunzia di nomi e parole straniere. Le accentature
scorrette. Le espressioni gergali. Buona parte dei
mezzo-busti, degli annunciatori, dei giornalisti, oltre a
ignorare il bello e forbito italiano, sono affetti da
disturbi della fonazione o da puntute inflessioni dialettali
che provocano disturbo e deconcentrazione
nell'ascoltatore.
In Italia si legge poco. Per scrivere bisogna leggere molto.
Chi non sa scrivere non ha il dominio della realtà. Chi
non sa esprimersi trova difficoltà a entrare in rapporto,
in comunione con gli altri. Alla scuola è demandato il
compito di avviare i giovani verso un processo di
"coltivazione non statica della lingua, risorsa
fondamentale" di aggregazione nazionale.
Sostiene Veneziani: "La storia dell'italianità è
assai più lunga e prestigiosa della storia dello Stato
unitario". Echeggiando quanto detto dal nostro, mi va di
sottolineare che la storia della napoletanità è assai
più lunga dell'italianità. Nelle parole, nella lingua,
nel caso specifico della lingua napoletana, dialetto dopo
l'Unità, è la storia, la cultura, l'arte di Napoli.
Continua Veneziani: "A costo di passare per platonico,
dirò una mezza eresia: l'italianità esiste, gli
Italiani un po' meno". Do per scontato quanto dichiara
Veneziani, e aggiungo: Nei napoletani c'è più
napoletanità che italianità. Una napoletanità che si
stende oltre confine, forse a volte ambigua, a volte
impresentabile, ma senz'altro più fatale, più
scoperta.
"I dialetti italiani sono veramente un fatto unico nella
storia culturale europea per la loro varietà, pari, per
interesse, alla diversità del paesaggio, dei monumenti,
delle opere d'arte del nostro Paese.
I dialetti non sono, come qualcuno crede, delle
degenerazioni della lingua ma risalgono ad una matrice
comune ed hanno, perciò dignità pari a quella della
lingua. E' quanto precisa Tristano Bolelli nel
"Dizionario dei dialetti d'Italia".
Il napoletano affonda le sue radici nel latino volgare.
Dialettale era la lingua usata dai poeti. Popolari sono le
tradizioni stimolate dai riti greci e romani. Persino il
Sannazaro e il puteolano Loise de Rosa, si esprimevano in un
dialetto libero e senza pretese ma tale e quale come quello
appreso dalla nascita.
Greci, romani, spagnoli, francesi determinarono, con i loro
avvicendamenti, l'introduzione di numerosi prestiti che
influenzarono i più disparati ambiti: la filosofia, la
poesia, l'oratoria, la moda. Termini di cortesia,
d'insulto, modelli di comportamento, codice marinaresco,
regole commerciali, articoli di arredamento, giochi.
Diversamente dall'italiano che accoglie, introita il
barbarismo nella sua interezza facendolo proprio, il
napoletano in parte lo rigetta, lo accomoda, lo modifica, lo
trasforma. E così, pur accettando parole straniere
francesi, spagnole, dona loro una veste nuova, una forma
nuova, nuove accezioni. Così il francese "gateau",
timballo di patate, diventa "gattò". Così dal latino
"pellicula" deriva "pellecchia", pelle aggrinzita.
Dal francese "pareille", coppia, contraccambio,
"pareglia". Dallo spagnolo "abajo", giù, abbasso,
"abbascio". Da "buscar", spagnolo, guadagnare,
"abbuscà', che vuol dire anche essere bastonato;
"m'abbusco 'na lira",
ma anche "m'abbusco 'na mazziata".
Il napoletano è un dialetto vivo, soggetto a trasformarsi,
ad evolversi, ad arricchirsi. Il napoletano è, tra i
dialetti, a motivo anche delle sua diffusione nel mondo
grazie alla canzone e alle numerose colonie di emigrati,
specie nelle Americhe, senza alcun dubbio, il più parlato.
Il napoletano è, tra i dialetti, il più ricco, il più
armonioso, il più duttile per capacità espressive, per
scorrevolezza, per musicalità. Nel dialetto si esalta la
poesia napoletana che – osserva Tilgher – " è poesia
d'arte, che si fa popolare appunto perché sono canti che
rispecchiano in modo perfettissimo tutte le tendenze
dell'anima napoletana, fondendo il più corpulento
realismo alla più alata fantasticheria, la malinconia
accorata alla gaia spensieratezza, il cupo pessimismo alla
più appassionata sentimentalità, la sapiente
sentenziosità all'ironico scetticismo, la sensualità
bruciante alla soave ingenuità, l'insaziato amore della
vita a un onnipresente ma pur sereno pensiero della
morte".
Ora seppure combattute, contrastate da più parti, la
lingua madre, l'italiano, la lingua dei Padri, il
napoletano, rappresentano la nostra storia, la nostra
cultura, la nostra civiltà, la nostra identità.
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