NON E' PIU' NAPOLI LA CAPITALE DEL FALSO
"MADE IN ITALY"? NO, IN CINA MA E' UNA COPIA PERFETTA
di Raffaele Bruno
_ Altro che rotto, il mercato è in frantumi. I cinesi si
muovono sul mercato italiano e mondiale con una
spregiudicatezza tale da copiare perfino il marchietto (Ce)
dell'Unione europea spacciato per "China Export".
Finchè non vedi le copie, però, uguali in ogni piccolo
dettaglio, non puoi capire davvero. Perché è tutta lì
la concorrenza impossibile. Una concorrenza sleale che
colpisce la nostra produzione in ogni settore, dai vestiti
alle macchine di caffè con l'omino della Bialetti, dal
cartoccio dei cioccolatini Ferrero Rocher ai gioielli d'oro
di Vicenza ai rubinetti di Lumezzane. Va a scheggiare
pericolosamente perfino quella che è l'ossatura del Nord -
Est e della terza Italia, nonché zone come Napoli (a Somma
Vesuviana e nella zona della Stazione Centrale, dove
l'Associazione - Movimento Politico Vento del Sud ha avviato
una petizione popolare contro la concorrenza sleale dei
cinesi), in Puglia a Barletta e a Foggia, ma anche in tutto
il Nord ricco e industrializzato. Tutto quel tessuto di
fabbrichette e di piccole imprese che avevano conquistato il
mercato mondiale inventando macchine che offrono soluzioni
semplici a problemi complicati. E che oggi si vedono rubare
ampie quote di mercato dalle "loro" macchine coi "loro"
marchi vendute a metà prezzo.
Lungo i vicoli napoletani e nei Paesi vesuviani sono
scomparse le addette alla produzione di borse, scarpe e
cinture. Almeno per quanto riguarda la produzione, Napoli
non è più la capitale del falso: gli oggetti
contraffatti vengono importati dalla Cina o costruiti in
loco in laboratori che non si vedono, ubicati nei sottoscala
e negli atri dei negozi cinesi che stanno sorgendo a
migliaia. A questo fenomeno non corrisponde però un calo
dei capi contraffatti sulle bancarelle e sui marciapiedi:
borse, magliette, ombrelli, macchine fotografiche e
portafogli si vendono ugualmente.
La novità è che questi articoli sono ora prodotti in
larghissima parte in Cina, a costi molto più bassi perfino
rispetto dei laboratori napoletani "in nero". Tutti gli
scantinati di Soma Vesuviana ed altri paesi del Vesuviano
nella provincia di Napoli, da qualche anno, sono anch'essi
abitati da cinesi Qui tutto sa di stoffe, ago e filo. Ma dal
'95 si declina all'orientale. Come Prato, che produce il
mede in Italy destinato a target medio alti, così San
Giuseppe (target medio basso) ha subito una vera e propria
invasione, con una concorrenza davvero sleale. Basti pensare
che se un pantalone "orientale costa mille delle vecchie
lire, uno italiano costa seimila lire. "I cinesi si sono
insediati in questo modo nel nostro mercato - spiega Enzo
Speranza, presidente del Consorzio di imprese vesuviane -
per lo più nel settore tessile e dell'abbigliamento, che
per il 90% è orami nelle mani dei cinesi. Quello che gli
italiani cuciono in 4 - 5 giorni i cinesi lo cuciono in 24
ore. Quest perché - prosegue Speranza - noi la manodopera
non la sfruttiamo, non lavora 20 ore su 24. dopo la fase
degli anni novanta dell'insediamento e del lavoro da
terzisti, gli imprenditori del Sol Levante da trasformatori
sono diventati produttori e oggi anche distributori. Anche
il commercio all'ingrosso, come quello a dettaglio, è
ormai completamente nelle mani degli orientali. A San
Giuseppe non hanno aperto qualche ristorante o qualche
negozio con le lanterne rosse all'esterno, conclude
Speranza, sono venuti a fare il nostro stesso mestiere e in
una fase economica difficile, con la mancanza di condizioni
per lo sviluppo, ci hanno ampiamente superato ed ora molti
di noi lavorano per loro o devono chiudere".
La ricetta dell'Associazione - Movimento politico Vento del
Sud e contenuta nella petizione popolare rivolta al Governo
sembra chiara e articolata. E potrebbe avere un grande
successo (come è avvenuto a Napoli) se essa sarà
divulgata il più possibile:
• Aumentare la tassazione dei capitali agli imprenditori
che aprono aziende all'estero e sugli utili giganteschi che
ne ricavano;
• utilizzare le somme così tassate per realizzare un
fondo sociale da mettere a disposizione delle fasce più
deboli della società con un salario minimo di inserimento
sociale ai giovani da impegnare in opere di pubblica
utilità;
• controllare costantemente le condizioni dei luoghi di
lavoro e le condizioni in cui i lavoratori svolgono la loro
opera sotto il profilo dei tempi, delle modalità e del
salario ad essi corrisposto;
• controllare costantemente le condizioni della merce
prodotta in loco o importata dai Paesi asiatici;
• chiudere i negozi, le fabbriche ed i centri commerciali
cinesi, presenti in Italia, che non siano conformi allenorme
sanitarie, fiscali, previdenziali ed alla legislazione
sindacale.
Raffaele Bruno
mercoledì 14 gennaio 2009
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