mercoledì 1 aprile 2009

COESIONE POLITICA E SOCIALE PER L'EUROPA (di Raffaele bruno)

COESIONE POLITICA E SOCIALE PER L'EUROPA

di Raffaele bruno

Confondere la civiltà europea con la civiltà
universale, è una tentazione ben nota in Europa. Dare ad
una realtà concreta e contingente un significato quasi
assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile discutere
delle aspettative e delle attese di una parte dell'Europa
nei confronti dell'altra. Occorre, forse, innanzi tutto
definire o chiarire alcuni concetti e termini, avviandoci
nel cammino verso "l'altra Europa". Occorre subito dire che
l' Europa dell'Est è stata una designazione più politica
e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla
Seconda guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nome
è diventato desueto, viene sostituito da un altro,
altrettanto impreciso: Europa centrale e orientale. L'Europa
centrale comprende anche paesi che - come l'Austria o la
Svizzera - non sono stati assoggettati dai "regimi
comunisti" dell'Est. L'altra Europa è anch'essa una
nozione mal definita, forse di proposito. Che cos'è altro
in questa parte dell'Europa e che cos'è europeo in questa
alterità? Nessuno ha risposto a queste domanda, non so
nemmeno se sia mai stata formulata. L'Europa nel suo insieme
non è più ciò che era una volta. Anche quello che
chiamavamo il Terzo Mondo è cambiato e alcuni parlano
già di un Quarto Mondo. Una parte dell'Altra Europa dei
giorni nostri fa apparentemente parte del Terzo Mondo: resti
dell'impero sovietico, vestigia dell'antica Russia, della
Bielorussia o dell'Ucraina, gran parte della ex Jugoslavia
disgregata, i confini dei Balcani, della Bulgaria,
dell'Albania o della Romania, fors'anche della Grecia o
della Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento quanto
inatteso, le nozioni di Europa occidentale e orientale
sembrano finalmente corrispondere a punti cardinali. Ci si
potrebbe rallegrare di questo buon uso delle parole se le
cose in sé si presentassero diversamente. Se l'altra
Europa è una denominazione ambigua, la realtà cui si
riferisce non lo è di meno. Oggi questa realtà la
possiamo scorgere come è o come dovrebbe essere. La
retorica si adatta a queste ambivalenze. La politica ne
trae vantaggio. La retorica politica ne abusa. Si tratta di
pensare l'Europa prendendo in considerazione i valori della
cultura e della civiltà che la caratterizzano. Evitare di
adottare solo i progetti particolari, che talvolta
nascondono piatti interessi politico-economici. Questo
sembra essere di massima urgenza nel momento in cui l'Europa
stessa realizza la sua definizione e prepara, non senza
difficoltà, una Convenzione sul futuro dell'Europa, specie
di Costituzione per i suoi membri (o un Trattato di
costituzione, come è stato detto recentemente).
L'allargamento dell'Unione europea conferisce ad un tal
compito una straordinaria rilevanza. Ogni tentativo simile
esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale
ed imprescindibile:"Quale Europa?". L'abbiamo sentita, tante
volte, in diversi contesti, dall'Europa del carbone e
dell'acciaio fino a quella di Maasticht e dell'euro. Forse
è utile rievocare alcuni termini in cui quella domanda
era posta e salvare dall'oblio alcune idee dei nostri
predecessori. Alcune di esse hanno conservato tutta la loro
attualità: "L'Europa sarà seria o non sarà... Sarà
più scientifica che letteraria, più intellettuale che
artistica. Per molti di noi questa lezione sarà crudele".
Così ci ammoniva Julien Benda nel suo Discorso alla
nazione europea, scritto alla vigilia di una guerra che
sarebbe stata europea prima di diventare mondiale. Potremmo
modificare alcuni accenti di tali messe in guardia o
apportarvi, nello stesso spirito, qualche aggiunta. Sarebbe
auspicabile che l'Europa odierna fosse più forte e armata,
più aperta al cosiddetto Terzo Mondo, più Europa dei
cittadini, più consapevole di se stessa e soprattutto meno
soggetta all'americanizzazione. Sarebbe utopistico
aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più
comunitaria che cosmopolita, più culturale che
commerciale, più solidarista che capitalista e senza
volto. L'Europa dei valori non permetterebbe che si
chiedesse, per entrare nell'Unione europea, di passare per
la Nato: è un tipo di purgatorio che avrebbe rifiutato.
E' legittimo chiedere quale sarebbe l'"altra Europa", che
si trova di fronte a queste alternative. Nella maggior
parte dei cosiddetti "paesi dell'Est", il post-comunismo
non è ancora riuscito a "raggiungere" i regimi che si
dicevano comunisti (come livello di vita e di produzione,
scambi economici, sicurezza sociale, regime pensionistico,
eccetera). Per citare solo un esempio: la Slovenia, uno dei
nuovi stati meglio partiti, con uno statista illuminato a
capo, ha messo quasi otto anni per poter raggiungere la
stessa Slovenia - la sua produttività dell'inizio degli
anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di
riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che
si è autoproclamato "reale". Le transizioni di questi
paesi durano molto più a lungo del previsto. Riescono
soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni.
(Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la
transazione è basata su ipotesi, la trasformazione è un
risultato). Il ricordo dell'Ancien régime è vivo ancora
in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si
tratta di una realtà che sembra già compiuta senza
concludersi o raggiungere una forma accettabile. E' una
situazione difficile dalla quale non ci si riesce ad
affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza
riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. E' un ruolo tutt'altro
che facile.
Più di un regime proclama in modo ostentato la
libertà senza pervenire a fornire un'apparenza appena
credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra
presente e avvenire si svolge l'ibrido incontro tra un
auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento.
Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da
spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si
riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono
certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne,
rischiando di abusarne. In questi paesi è stato necessario
difendere un patrimonio nazionale - ed oggi bisogna, in
molti casi, difendersi da quello stesso patrimonio.
Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla
- ed essa sembra adesso voler punire quelli stessi che
l'avevano salvata. Se bene non si possono generalizzare
queste constatazioni un pò forzate: ciò che vale per
l'Albania, o per certe componenti dell'ex Jugoslavia, non
può essere applicato allo stesso titolo per la Bulgaria,
la Romania o la Russia. La situazione bulgara, rumena o
russa non è comparabile con quella dell'Ungheria, della
Polonia o, soprattutto, con quella della Repubblica Ceca o
della Slovenia.


Raffaele Bruno

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