sabato 30 maggio 2009

AVANZA INESORABILE IL PRECARIATO E LO STATO NON SI MUOVE!

IL PRECARIATO CHE AVANZA SEMPRE PIU' MASSICCIAMENTE E' ANCHE
FRUTTO DELLE DELOCALIZZAZIONI INDUSTRIALI!

di Raffaele Bruno (Vice Segretario Nazionale Vicario del MIS
con Rauti)

Lo avevamo chiamato - a suo tempo; e già tre/quattro anni
fa, quando quella nostra parve un'eresia o quasi – lo
avevamo definito come "deindustrializzazione". E ne
avevamo colto i sintomi non solo in Italia ma in tutta
Europa – e anche negli Stati Uniti – per via delle
conseguenze della delocalizzazione. Era troppo a portata di
mano, era troppo appetibile in termini di profitto immediato
il poter andare a produrre fuori dall'Occidente
industrializzato in genere, là dove la mano d'opera
costa dieci o magari venti volte di meno. E dove si può
produrre senza contributi sociali, senza orari, senza
sindacati. Senza nient'altro, appunto, che la ricerca del
profitto, del guadagno, dell'incasso finalizzato
unicamente all'arricchimento.

Ne abbiamo scritto centinaia di articoli "contro"; ne
abbiamo scritte migliaia di pagine; con molte cifre, con
molti numeri, con tante statistiche.

Adesso, leggiamo in giro sempre più spesso e sempre più
diffusamente, che è in atto un fenomeno massiccio,
inquietante, con qualche aspetto già evidente e
devastante: lo chiamano "declino industriale".

Non siamo lì? Non siamo alla deindustrializzazione? Nomi e
definizioni a parte non siamo di fronte ad un fenomeno di
segno negativo e mai visto prima nella vita economica
dell'Occidente?

In Occidente, ormai da molti secoli, tutto cresceva, tutto
ruotava, tutto funzionava intorno alla "crescita
industriale"; e il dato di fatto da secoli consolidato era
che ogni invenzione o scoperta tecnica creava "nuova
occupazione". Adesso non è più così; in un numero
crescente di settori le nuove tecnologie creano non
occupazione ma disoccupazione. A livelli impressionanti,
soprattutto al Sud, dove la disoccupazione giovanile sfiora
punte del 60%! E poi, c'è a portata di mano quella
possibilità di cui dicevamo poc'anzi: chiudere qui e
andarsene a produrre altrove; in Cina, in Bangladesh o anche
più lontano, dove si guadagna di più e senza "remore
sociali" di alcun genere.

Fenomeno indotto, anch'esso senza precedenti nella vita
economica e nella storia industriale dell'Occidente, è
che sta venendo meno il "lavoro fisso". Anche qui: a
sfaldarsi è un'altra struttura fondante – ormai da
secoli – del vivere sociale. Il venir meno del lavoro
fisso, l'emergere prima e adesso il dilagare del "lavoro
temporaneo", part time, sempre più precario, sconvolge
la possibilità di quella progettualità cui ogni singolo
e ogni famiglia, da sempre, facevano riferimento.

Un "precario" non si sposa. Non mette "su casa",
come si usava dire e fare, concretamente fare. Un
"precario" non mette al mondo figli.

Al massimo convive; si accoppia senza "fondersi", senza
passare da compagno di letto a marito e a padre. E se e
quando la donna resta incinta, c'è l'aborto.

Tutta una serie di "ricadute" sociali e civili, nel
vivere di tutti i giorni, stanno venendo meno.

E quella che era la normalità, l'asse centrale, diventa
fenomeno marginale, residuo sovrastruttura posticcia. E la
società, la famiglia, quel tessuto sociale che per secoli
ha rappresentato il motore portante della nostra
collettività si sfalda sempre di più e genera
difficoltù e disperazione sociale. Anche a queste domande
deve dare risposte certe il governo di centro destra di
Berlusconi.
Raffaele Bruno

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