venerdì 1 maggio 2009

VECCHIAIA E DECLINO DELL'EUROPA

VECCHIAIA E DECLINO DELL'EUROPA

di Raffaele Bruno (Vice Segretario Nazionale Vicario del MIS
con Rauti)

Se ne comincia a parlare e a scrivere, finalmente! Di
vecchiaia d'Europa e del suo "declino" produttivo e
industriale, come fenomeni connessi, quasi due facce della
stessa medaglia, della stessa, triste realtà. E in effetti
l'intreccio c'è; e diventa sempre più evidente; e
anche sempre più complesso da affrontare o semplicemente
– per i governanti – da gestire fra difficoltà
crescenti.

Quello che continua a sorprendere, però,- soprattutto chi
come noi del Movimento Idea sociale da anni va seguendo
quello che accade lungo questo versante – è che non si
capisce che si tratta di un fenomeno "epocale". Sia
detto senza ombra di retorica ma con forza: quel fenomeno
è più "strategico" che soltanto "tattico", anche se si
esprime, ovviamente, negli accadimenti correnti e nei fatti
della cronaca economica e sociale.

Il cosiddetto "invecchiamento dell'Europa" – che
vede in prima linea le esigenze e le richieste anche
pesantemente polemiche le generazioni più anziane, a
cominciare da quello che attiene alle pensioni e, più
vastamente, "Stato sociale", viene da lontano e discende
direttamente dal tracollo delle nascite; fenomeno cominciato
ad emergere negli Anni '80 e poi accentuatisi, a ritmi
addirittura incalzanti, negli ultimi dieci anni. E'
quell'invecchiamento che provoca come conseguenza ovvia
– e difficilmente superabile senza, drammatici traumi
sociali, dei quali, in Italia, già abbiamo chiari segnali.

Poi, c'è un altro fenomeno, diventato evidente in questi
anni: la "trasformazione" della ricchezza produttiva in
ricchezza finanziaria. "Il contesto" che "siamo un
Paese di ex contadini, che vedevano una classe di signosi.
Si tratta <<divisione internazionale del lavoro>>, che sta
spostando fuori dall'Europa, o almeno fuori dai Paesi
della vecchia Europa, il grosso delle produzioni
manifatturiere.

Noi parliamo, con una incisività maggiore che ci sembra
necessaria di delocalizzazione dell'attività produttiva;
che è anche questo fenomeno epocale ed anzi fenomeno non
verificatosi prima nella storia economica dell'Occidente,
che ha compiuto intero il suo sviluppo degli ultimi 300 anni
fra confini e barriere che sono andati dagli "ostacoli"
posti prima dagli Stati nazionali e poi dal mondo comunista,
fra "cortine di ferro" e non meno rigide e insuperabili
"cortine di seta".

Adesso, si può andare a produrre in Cina o in Bangladesh,
dove l'operaio costa 20/30 volte meno in salario e lavora
50 ore a settimana senza oneri sociali; o nella più vicina
Europa dell'Est, dove il salario è 4/5 volte inferiore a
quello Occidentale con viaggi di 2/3 giorni.

Non è da condividere, quindi, l'ottimismo cui nonostante
tutto arrivano quanti ancora sperano che contro il declino
del "modello UE" si verifichi una "sferzata in stile
Tacher".

Al fenomeno – massiccio e crescente – della
delocalizzazione va infatti a sommarsi e ad intrecciarsi un
fenomeno non meno complesso, non meno <<pesante>> e
incidente, che è quello della immigrazione. Un flusso che
non si riesce a bloccare, e non soltanto in Italia; anche
perché ovunque nel mondo l'aumento della miseria e della
fame, spinge allo <<sradicamento>> milioni di persone.

A noi sembra che neanche di questo fenomeno – pur esso
nuovo nella storia della vita economica e sociale
dell'intero Occidente – si abbia percezione esatta,
neppure dal punto di vista meramente quantitativo.

Se ne è parlato – finalmente con cifre d'attualità
– verso la fine di settembre ad Erice (Trapani). Ed ecco
quanto abbiamo lettosi giornali in merito:

"Circa un sesto della popolazione mondiale entro i
prossimi dieci anni presserà contro le aree sviluppate del
pianeta in cerca di lavoro, perché i loro paesi d'origine
non saranno in grado di offrire strumenti di sopravvivenza.
Partono da questi dati le considerazioni di Rolf Jenny,
responsabile della commissione internazionale Onu sulle
migrazioni, che ha sede a Ginevra. Intervenuto al seminario
sulle «emergenze planetarie» in corso al Centro Ettore
Majorana di Erice, Jenny snocciola cifre preoccupanti: «Da
700 milioni a un miliardo di persone da qui al 2010
tenterà di varcare i confini dell' Occidente
industrializzato, dove già circa 200 milioni di persone si
sono trasferite dai loro paesi d'origine».

Questa enorme massa di lavoratori produce rimesse verso le
aree di provenienza, pari a 90 miliardi di dollari all'anno,
esattamente il doppio di quanto i paesi del G7 destinano
nello stesso periodo per aiuti al Terzo mondo. E proprio su
questi incentivi Jenny lancia la proposta di destinarne il
50% alle famiglie e la restante parte ai progetti di
sviluppo. Un modo per evitare che ingenti capitali si
dissolvano nelle mani dei governanti in paesi dove sono
scarsi i tassi di controllo e di democrazia.

Nel ricco Occidente gli immigrati contribuiscono per il 56
per cento all'aumento demografico, mentre in Europa la
percentuale si alza fino all'89 per cento".

Così come stanno le cose, insomma, e nella assenza
perdurante, ormai cronica, di qualsiasi "contrasto"
serio ed organico, l'invecchiamento e il declino
produttivo – e dunque economico e sociale –
dell'Europa sembrano rappresentare il suo destino; una
specie di "traguardo" tanto triste quanto inevitabile.

A meno che noi si trovi il modo di elaborarlo meglio di
quanto abbiamo fatto sinora, quel "contrasto"; quel
progetto di ripresa, di rinascita e di speranza per
l'Europa che è la motivazione fondante del nostro
programma e del nostro retroterra culturale. E a meno,
anche, che non si riesca a farlo conoscere meglio; più
efficacemente; più incisivamente. Non nell'isolamento
– orgoglioso, voluto e, al limite, pure sentimentalmente
tanto gratificante – come sono sempre le posizioni
antagoniste e minoritarie - ma là dove, con tattica più
realistica, esso possa essere recepito da un numero
crescente di persone. Nell'ottica di volere affrontare
problemi epocali quali quelli che si affacciano
all'orizzonte, sempre più complessi e devastanti, dovuti
alla globalizzazione incalzante che passa come un "rullo
compressore" sui popoli ed annienta identità e tradizioni
se non vi porremo rimedio con le nostre battaglie sociali e
popolari.

Raffaele Bruno

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